Terreno impervio

E così alla fine è successo, senza tanti preamboli, semplicemente. Quasi come se niente fosse. Abbiamo camminato su un terreno molto scivoloso, e sembrava che ne fossimo pienamente consapevoli. Gesti piccoli, parole misurate, movimenti delicati. Qualche timida domanda alla fine, e le risposte, timide anche quelle. La crepa è profonda, ma mi piace pensare che questo sia stata una mano tesa da qui a lì. 

L’isola dei calzini perduti

Narra la leggenda che i calzini eletti, i prescelti dal Signore dei Calzini, saranno “presi in un vortice centrifugo e trasportati in un’altra dimensione”. 

Il risucchio centrifugo avviene attraverso lo scarico della lavatrice, e getta i calzini prescelti nello spazio/tempo fognario, in un difficilissimo viaggio, che li porterà fino al mare, e da lì in qualche modo, per chi riuscirà, fino all’isola dei calzini. Un luogo mitico, una specie di paradiso in terra per tutti i calzini del mondo.

Antichi testi riportano le mappe, molto confuse per la verità, che dovrebbero indicare come raggiungere l’isola. Va anche detto che volumi risalenti ad epoche diverse collocano la mitica isola in luoghi sensibilmente diversi. Comunque sia tutti i calzini imparano fin dalla più tenera età tutte le raccomandazioni e i trucchi tramandati dai calzini anziani, per riuscire nell’epico Viaggio, e c’è addirittura chi tenta di ricamare al proprio interno una copia della mappa. In realtà, poiché difficilmente i calzini hanno accesso alla scatola del cucito, molti di loro lavorano per sottrazione e così procedono ad assottigliare fino a bucare la propria superficie per raggiungere una qualche somiglianza con la fatidica mappa. Ma devono stare molto attenti, perché il loro lavoro, se troppo visibile viene costantemente distrutto dai loro piedi. E se esagerano vengono addirittura eliminati, perdendo ogni speranza di trovare la via per l’isola.

Il Viaggio, per quelli che lo intraprendono, è difficoltosissimo. Alcuni lo iniziano di propria volontà trovando il modo di farsi passare al di là del filtro. Alcuni non ci riescono mai, nemmeno tentando con atti di corruzione. Alcuni si organizzano e tentano il sabotaggio approfittando di lavaggi in cui si ritrovano in gran numero, e a volte qualcuno riesce a passare.

Alcuni invece pur senza avere la minima voglia di diventare eroi e intraprendere il Viaggio, si ritrovano loro malgrado presi nel “vortice centrifugo” e a quel punto non possono far altro che cercare di arrivare all’isola. Inutile tentare di opporsi.

La via fino al mare è impervia, quasi impossibile. Si calcola che solo uno ogni 100 riesca a superare questa prima parte del viaggio.

I più fortunati sono dimenticati in riva al mare (o ad un fiume) dai loro piedi e così cominciano il viaggio già da un buon punto. 

Ma anche il viaggio in mare non è affatto semplice. Le correnti non sono sempre favorevoli e gli oceani sono enormi. Molti calzini vagano per anni prima di approdare all’isola. Altri vengono mangiati, o si incagliano o si consumano completamente e non arrivano mai. Quante storie sono state scritte sulle avventure degli eroici calzini alla ricerca dell’isola…

Ma per quei pochi che ce la fanno è veramente il culmine di ogni possibile gioia.

Sull’isola regna una coppia di calzini, caso unico nella storia di coppia di calzini che è riuscita a ricongiungersi sull’isola.

Già, perché non bisogna dimenticare che quando un calzino intraprende il mitico Viaggio l’altro rimane e rimarrà chiuso nel cassetto. Per sempre. Se non addirittura gettato su una via che difficilmente porta al mare.

Ecco perché, e arrivo al punto e alla morale della storia, bisogna sempre organizzare degli incontri tra calzini spaiati, affinché abbiano una seconda possibilità, l’abbandono non risulti troppo pesante e non entrino in depressione.

È tutto.

Cappelletti

Quando ero piccola la mia nonna Severina era la regina della casa, la resdòra. Comandava tutti a bacchetta, il burbero marito, il figlio, la nuora e noi nipoti ovviamente. E con che bacchetta: brandiva un mattarello più alto di lei e a nessuno veniva in mente di disobbedire. Me la ricordo girare per casa con il mattarello completamente avvolto da non so quanti giri di pasta, che spostava da un tavolo all’altro a seconda delle necessità della famiglia. E quel movimento rapido con cui faceva arrotolare la pasta, che proprio non riesco a replicare… comunque, i cappelletti a casa nostra non mancavano mai. C’era sempre una linea di produzione attiva. Nei giorni di festa tutti eravamo coinvolti, ma a volte anche nei pomeriggi di pioggia lei e il nonno si sedevano in cucina e “intant ca n’ghè gnint da fèr…”. 

La zia Carla è la legittima erede dell’arte del cappelletto a ciclo continuo. Vuoi perché è la figlia femmina, vuoi perché è rimasta a vivere in Emilia, noi emigrati e sparpagliati facciamo del nostro meglio, senza nemmeno sognarci di competere, ma per Natale non potevamo proprio esimerci.

Della mia nonna, donna di poche parole e rigorosamente in dialetto, serbo nel cuore la schiettezza e la caparbietà. Ormai vecchia, vecchissima, supervisionava i nostri timidi e impacciati tentativi, stroncandoli con un dito. Letteralmente con un dito: toccava l’impasto e “aghè tròp sèl” (troppo sale) così, senza nemmeno assaggiare…

“Anghè doùbi”, letteralmente “non c’è dubbio”, ma in pratica “impossibile” o più esattamente “mai nella vita” è un’espressione che potrei imparare ad usare un po’ di più, insieme al mattarello che ho orgogliosamente ereditato.

A cosa serve l’analisi logica?

Infatti, devo ammettere che non l’ho mai capito. Ed è stato veramente buffo arrampicarmi sugli specchi così a lungo questa mattina cercando di convincere il dodicenne con cui condivido gran parte della mia vita, esattamente del contrario. E cioè che l’analisi logica non è che serve solo a prendere la sufficienza in italiano ed essere promossi, bensì serve tantissimo nella vita, serve in un modo che non si riesce nemmeno ad immaginare, serve a tutto, anche (e soprattutto) se non ce ne rendiamo conto, insomma è praticamente indispensabile…

D’altronde come potremmo vivere senza logica? o senza analisi? Continuamente analizziamo con (più o meno) logica tutto quello che ci accade, tutte le situazioni in cui ci troviamo, soprattutto per cavarci d’impaccio da momenti diciamo non proprio piacevoli… e qui ci si potrebbe tranquillamente infilare un po’ di geometria e anche il metodo scientifico volendo. Ma non divaghiamo. L’analisi logica non è poi così male perché in fondo è un po’ flessibile. È anche creativa a modo suo, visto che ogni parola può uscire dalla sua “comfort zone” e reinventarsi in un ruolo anomalo o inaspettato. Però non c’è niente da fare, puoi essere anomalo e creativo quanto ti pare, ma l’analisi logica ti troverà sempre una spiegazione (logica ovviamente) e ti incasellerà in un ruolo, che per quanto di prestigio nella sua unicità si rivelerà ben presto per quello che è veramente, precario e mal pagato, oltre che non capito dai più. Sto divagando? 

Comunque devo ammettere che sono stata davvero brava perché anche se alla fine lui ha sintetizzato in modo esemplare sentenziando che “sì in fondo l’analisi logica è meglio di quella grammaticale perché è più corta!” io forse sotto sotto qualcosa in più l’ho capito.

Forma e sostanza

In fin dei conti non è poi così importante. Non c’è da farne un affare di stato se il cliente ti chiede di ingrandire un titolo o cambiare un colore. Anche se quel colore era il risultato di ore di lavoro e non di un capriccio dettato dal gusto personale. Insomma, quello che conta veramente è il contenuto, no..?

Sì, però… ci vuole un po’ di rispetto, anche per il superfluo. Il mio lavoro consiste proprio nel dare la forma migliore alla sostanza. Valorizzare il contenuto, rendere gradevole la lettura di un testo, far arrivare il messaggio, prendere l’attenzione con un solo colpo d’occhio.

È un lavoro delicato, che mi piace fare in punta di piedi, e mi piace proprio per questo, perché è essenziale ma può essere anche superfluo, non c’è da prendersi troppo sul serio.

Ma la soddisfazione più bella in assoluto è quando riesco a dare una buona forma ad un ottimo contenuto. E in questi ultimi due anni ho avuto la fortuna di collaborare ad un progetto molto speciale, così ricco di contenuto, grazie al quale ho potuto, finalmente e senza alcuno scrupolo, dare forma alla Form@.

È durato solo due anni, troppo poco come hanno detto tutti, ma chissà…

Potete dare un’occhiata alla forma cliccando sul pulsante qui sotto e poi magari scoprire qualcosa sul contenuto, poiché ne vale la pena.

Pieni e vuoti

Quel momento esatto in cui pensi “quest’ultima frase era di troppo”. E vorresti mangiarti le mani perché non si può tornare indietro, ciò che è detto è detto, chiuso. E ciò che non è detto invece è ancora aperto, in qualche modo possibile.

Una delle lezioni più importanti che ho imparato quando studiavo è stata quella sull’importanza del togliere. E, da quel momento in poi, sto lavorando per imparare a non aggiungere troppo.
Non dovrebbe essere troppo difficile, perché il foglio in fondo è uno spazio finito, con dei confini chiari e, fisicamente, più di tanto non c’entra. Ma il punto dell’equilibrio è ben prima. E l’importanza del vuoto è spesso sottovalutata.

Il vuoto dà il ritmo, è la musica del foglio, il respiro che permette di elaborare e immaginare.
E non è solo una questione di necessario o superfluo. Anche il superfluo a volte è necessario.

“La bottiglia nel mare” di Ettore Blasi.

Il carattere del carattere

Quando la forma suggerisce qualcosa indipendentemente dal significato.

È la solita vecchia diatriba tra aspetto e contenuto. Il messaggio passa in secondo piano se l’aspetto ha un impatto troppo forte? Il contenuto si perde se la forma è troppo fiacca? Certo la forma non può sostituire la mancanza di contenuto, così come il miglior contenuto non può giustificare una forma sbagliata. Ma tra un estremo e l’altro ci sono mille sfumature, e la ricerca del punto di equilibrio è un po’ come la quadratura del cerchio.

La ricerca dell’equilibrio di volta in volta cambia, è sempre perfettibile. Il bilanciamento tra i vuoti e i pieni, tra il detto e il non detto. Togliere, togliere per tendere all’essenziale, ma senza mai arrivarci, perché qualcosa poi comunque serve, altrimenti tanto vale non dire niente e lasciare la pagina bianca. Così come gli allineamenti, che poi quelli giusti sono quelli sbagliati, perché è l’occhio che guarda e la percezione è tutto.

E allora quando dobbiamo dare una forma alle parole sulla carta stampata o sulla carta virtuale scegliamo un carattere tipografico.

È un po’ come il tono di voce che usiamo quando parliamo, il modo in cui moduliamo le parole, il volume, l’espressione del viso o i gesti che l’accompagnano, tutto contribuisce a dare un significato al nostro discorso, indipendentemente dalle parole che usiamo.

Per questo il nostro cane ci capisce quando gli parliamo: oltre le parole di cui sa il significato, interpreta il nostro tono, e reagisce di conseguenza.

Per lo stesso motivo siamo in difficoltà quando ci troviamo a parlare con qualcuno che usa sempre e solo un tono di voce neutro, magari senza accompagnare la parola con il benché minimo gesto. È come se mancasse il senso di quello che ascoltiamo, le parole diventano vuote, il significato sfugge, e il discorso si fa confuso.

Passando alla pagina stampata il font che viene usato e il modo in cui viene usato diventa il nostro tono, indispensabile se vogliamo farci capire.

Perché prima di leggere guardiamo, e guardando ci facciamo un’idea che influenzerà il nostro comportamento, la nostra reazione a quanto è scritto, indipendentemente dalle parole che sono state usate (sempre se arriveremo mai a leggerle). Dunque la scelta del carattere, diventa veramente importante.

Ecco perché quando ci troviamo a guardare una pagina dove vengono utilizzati magari 5 o 10 caratteri tipografici diversi, siamo istintivamente spiazzati. È come se il nostro interlocutore, per spiegarci che strada fare per arrivare ad un certo indirizzo, cambiasse tono di voce ad ogni parola, una sussurrata, una soave, una strillata, una ridendo, una piangendo una in tono formale, una strizzando l’occhio, e così via. Non so se seguiremmo mai le sue indicazioni, che invece magari erano proprio quelle giuste…Insomma è la perdita del significato senza guadagnare nulla nella forma.

Oppure può capitare di leggere parole scritte con caratteri completamente inappropriati, così come risulterebbe inappropriato ridere e ammiccare mentre si racconta di quanto sia affidabile un certo medico, oppure essere serissimi e formali mentre si invita qualcuno ad una festa in maschera.

Senza entrare nel campo del gusto, che è personale, il modo in cui disegniamo e organizziamo la pagina, è un po’ come l’abito che scegliamo di indossare, e che ci rappresenta agli occhi degli altri, in cui ci sentiamo a nostro agio se è in sintonia col nostro umore. 

E ogni carattere tipografico ha il suo carattere ed esprime nelle sue forme ciò che vogliamo o dobbiamo dire e in qualche misura anche come ci sentiamo e ciò che siamo.


Un caffè da Panos

Sopra quel tavolo le nostre mani si sono poggiate, operose a tratti, per alcune settimane.

Le nostre risate si sono perse tra una bottiglia di qualcosa e una di qualcos’altro.

I nostri riflessi più o meno abbronzati tra i bicchieri a volte pieni, a volte vuoti.

Sotto quel tavolo calci involontari, sospiri canini, rifugio, porto sicuro per gambe affamate e zampe smarrite.

E comunque alla fine c’è il caffè. Non si scappa. E poiché siamo da Panos, è un caffè greco. Di quelli che bisogna aspettare e che poi ti puoi divertire a leggere i fondi. Storie nella storia, sogni nella tazza.

E quindi? E quindi niente, il punto è che quando fai un lavoro che ti piace sei sempre in vacanza.