Quando ero piccola la mia nonna Severina era la regina della casa, la resdòra. Comandava tutti a bacchetta, il burbero marito, il figlio, la nuora e noi nipoti ovviamente. E con che bacchetta: brandiva un mattarello più alto di lei e a nessuno veniva in mente di disobbedire. Me la ricordo girare per casa con il mattarello completamente avvolto da non so quanti giri di pasta, che spostava da un tavolo all’altro a seconda delle necessità della famiglia. E quel movimento rapido con cui faceva arrotolare la pasta, che proprio non riesco a replicare… comunque, i cappelletti a casa nostra non mancavano mai. C’era sempre una linea di produzione attiva. Nei giorni di festa tutti eravamo coinvolti, ma a volte anche nei pomeriggi di pioggia lei e il nonno si sedevano in cucina e “intant ca n’ghè gnint da fèr…”.
La zia Carla è la legittima erede dell’arte del cappelletto a ciclo continuo. Vuoi perché è la figlia femmina, vuoi perché è rimasta a vivere in Emilia, noi emigrati e sparpagliati facciamo del nostro meglio, senza nemmeno sognarci di competere, ma per Natale non potevamo proprio esimerci.
Della mia nonna, donna di poche parole e rigorosamente in dialetto, serbo nel cuore la schiettezza e la caparbietà. Ormai vecchia, vecchissima, supervisionava i nostri timidi e impacciati tentativi, stroncandoli con un dito. Letteralmente con un dito: toccava l’impasto e “aghè tròp sèl” (troppo sale) così, senza nemmeno assaggiare…
“Anghè doùbi”, letteralmente “non c’è dubbio”, ma in pratica “impossibile” o più esattamente “mai nella vita” è un’espressione che potrei imparare ad usare un po’ di più, insieme al mattarello che ho orgogliosamente ereditato.













